Mario Rossi Experience
ESSERE MARIO ROSSI È UN'ESPERIENZA CYBER MISTICA POST INDUSTRIALE. È LA FRONTIERA ESTREMA DELLA SOCIETÀ DEI CONSUMI E DEI SERVIZI, IL FACSIMILE DI ESSERE ROSSI MARIO. E’ L’ESISTENZA VIRTUALE PIÙ ESEMPLARE E QUELLA REALE IDENTITARIAMENTE PIÙ RISCHIOSA. ESSERE MARIO ROSSI È UN BLOG, IL BLOG DELLA MIA VISIONE DEL MONDO.
venerdì 10 febbraio 2012
giovedì 5 gennaio 2012
Lei fomenta l'odio sociale
La mia casa non è come la vostra, è meglio.
La mia vita non è come la vostra, è meglio.
Io non sono come voi, sono ricco.
La mia vita non è come la vostra, è meglio.
Io non sono come voi, sono ricco.
lunedì 26 dicembre 2011
Zombi 4 - un incubo all'alba
Ho una professione, una famiglia e una casa, ma stamattina mi sento uno zombi.
Ho la carta di credito, la macchina figa, i vestiti firmati, ma credo di essere proprio uno zombi.
Ho tutto quello che offre il mondo, ma siccome il mondo è un mercato, pago le sue merci con la vita che è il tempo, il lavoro e la coscienza.
Non sento la crisi, anzi arricchisco, ma all’alba ho fatto quest’incubo, mi sono alzato e mi sono specchiato.
Ho tutto quello che offre il mondo, ma siccome gli do in cambio la vita, allo specchio vedo uno zombi.
Ho la carta di credito, la macchina figa, i vestiti firmati, ma credo di essere proprio uno zombi.
Ho tutto quello che offre il mondo, ma siccome il mondo è un mercato, pago le sue merci con la vita che è il tempo, il lavoro e la coscienza.
Non sento la crisi, anzi arricchisco, ma all’alba ho fatto quest’incubo, mi sono alzato e mi sono specchiato.
Ho tutto quello che offre il mondo, ma siccome gli do in cambio la vita, allo specchio vedo uno zombi.
giovedì 22 dicembre 2011
Zombi 3 - sogno di una notte d'inverno
Guardo le stelle e mi sembra possibile,
il cielo è così grande.
Non vorrei più sentirmi senza futuro. Così morto, con la faccia cadente e lo sguardo
vuoto, come uno zombi.
Vorrei camminare a testa alta, avere un lavoro, una fidanzata, essere come le persone vive, invece mi sento uno zombi.
Vorrei fare shopping, pagare col bancomat, avere un ruolo nella società.
Ma se proprio devo avere una vita di merda, voglio almeno fare lo zombi.
E non il disoccupato.
il cielo è così grande.
Non vorrei più sentirmi senza futuro. Così morto, con la faccia cadente e lo sguardo
vuoto, come uno zombi.
Vorrei camminare a testa alta, avere un lavoro, una fidanzata, essere come le persone vive, invece mi sento uno zombi.
Vorrei fare shopping, pagare col bancomat, avere un ruolo nella società.
Ma se proprio devo avere una vita di merda, voglio almeno fare lo zombi.
E non il disoccupato.
martedì 3 maggio 2011
Zombi 2
Non sono sicuro di essere morto. Ossia, ricordo di essere morto, o qualcosa del genere, e poi ricordo di essere uscito dalla fossa facendo una gran fatica. Adesso vado in giro come se fossi vivo, mi sa che sono uno zombi.
Prima gli zombi li avevo visti solo nei film, ora li frequento regolarmente, siamo una comunità qui in città.
Vorremmo lavorare e facciamo tentativi per inserirci nel tessuto sociale, per integrarci con i vivi. Ma la gente ha paura di noi e quando ci vede cambia marciapiede, se va bene. La maggior parte delle persone vive fa anche di peggio: ci ignora, finge che non esistiamo; dicono “gli zombi non esistono, si vedono solo in tv.”
Non è vero, io ci sono, e ci fui.
Questa notte, accidentalmente, sono capitato davanti ad uno specchio e mi sono visto. E’ stato uno shock. Posso capire, limitatamente al rispetto per la sensibilità altrui che ognuno dovrebbe sempre avere, le reazioni scomposte di chi mi vede e fugge via. Faccio impressione.
Però vorrei darmi ugualmente da fare. Vorrei rendermi utile. Noi zombi siamo disposti a fare i lavori che i vivi non vogliono fare, come ad esempio il beccamorto. Io lo farei anche gratis.
Avendo un sacco di tempo libero ed una certa tendenza ad andare sottoterra, ho iniziato a frequentare gli scantinati ed ho scoperto che sono una miniera di sapere. I testi scolastici e universitari degli anni trapassati riempiono gli scantinati. E’ la cultura underground.
Ora sto studiando statistica. Due zombi su tre hanno nostalgia del luogo d’origine, l’oltretomba, ma preferiscono restare in questo limbo, da clandestini, per cercare di costruirsi un’esistenza dignitosa ed una speranza nel futuro che quando erano vivi non sono riusciti ad avere, sognano una nuova vita.
Ci sono anche quelli che vorrebbero arricchirsi e sperano di frequentare zombi di veline e soubrette, magari vorrebbero diventare zombistar di Holliwood, ma c'è troppa concorrenza e le produzioni preferiscono perdere ore ed ore per il trucco di attori vivi che sembra siano più credibili, come zombi.
Che strano sistema, il vostro; avete alimentato la nostra fantasia con i film e la televisione, ci avete illuso circa il protagonismo di chiunque avesse iniziativa e ora che siamo arrivati; voglio dire, più iniziativa di questa, siamo venuti fuori dalla tomba; ora che siamo arrivati ci respingete e ci fate marcire negli scantinati a leggere i libri di scuola che da vivi non aprivamo nemmeno per finta.
Non si fa così. Non create false illusioni sulla libertà e sulla realizzazione dell'individuo, se poi non sono che menzogne per vendere automobili e vincere le elezioni. Con noi non servono questi trucchi: di votare non abbiamo il diritto e le automobili non le compriamo perché non abbiamo soldi e perché ci rimarrebbero le mani attaccate al volante, e non è una figura retorica.
Quindi, se mi chiedessero come mi trovo nel mondo di sopra, risponderei “male, non è un mondo civile.”
Per non parlare del fatto che una volta che stai al mondo come zombi, da qualche parte ti devi cercare da mangiare. Ma questo è un altro tipo di problema.
Prima gli zombi li avevo visti solo nei film, ora li frequento regolarmente, siamo una comunità qui in città.
Vorremmo lavorare e facciamo tentativi per inserirci nel tessuto sociale, per integrarci con i vivi. Ma la gente ha paura di noi e quando ci vede cambia marciapiede, se va bene. La maggior parte delle persone vive fa anche di peggio: ci ignora, finge che non esistiamo; dicono “gli zombi non esistono, si vedono solo in tv.”
Non è vero, io ci sono, e ci fui.
Questa notte, accidentalmente, sono capitato davanti ad uno specchio e mi sono visto. E’ stato uno shock. Posso capire, limitatamente al rispetto per la sensibilità altrui che ognuno dovrebbe sempre avere, le reazioni scomposte di chi mi vede e fugge via. Faccio impressione.
Però vorrei darmi ugualmente da fare. Vorrei rendermi utile. Noi zombi siamo disposti a fare i lavori che i vivi non vogliono fare, come ad esempio il beccamorto. Io lo farei anche gratis.
Avendo un sacco di tempo libero ed una certa tendenza ad andare sottoterra, ho iniziato a frequentare gli scantinati ed ho scoperto che sono una miniera di sapere. I testi scolastici e universitari degli anni trapassati riempiono gli scantinati. E’ la cultura underground.
Ora sto studiando statistica. Due zombi su tre hanno nostalgia del luogo d’origine, l’oltretomba, ma preferiscono restare in questo limbo, da clandestini, per cercare di costruirsi un’esistenza dignitosa ed una speranza nel futuro che quando erano vivi non sono riusciti ad avere, sognano una nuova vita.
Ci sono anche quelli che vorrebbero arricchirsi e sperano di frequentare zombi di veline e soubrette, magari vorrebbero diventare zombistar di Holliwood, ma c'è troppa concorrenza e le produzioni preferiscono perdere ore ed ore per il trucco di attori vivi che sembra siano più credibili, come zombi.
Che strano sistema, il vostro; avete alimentato la nostra fantasia con i film e la televisione, ci avete illuso circa il protagonismo di chiunque avesse iniziativa e ora che siamo arrivati; voglio dire, più iniziativa di questa, siamo venuti fuori dalla tomba; ora che siamo arrivati ci respingete e ci fate marcire negli scantinati a leggere i libri di scuola che da vivi non aprivamo nemmeno per finta.
Non si fa così. Non create false illusioni sulla libertà e sulla realizzazione dell'individuo, se poi non sono che menzogne per vendere automobili e vincere le elezioni. Con noi non servono questi trucchi: di votare non abbiamo il diritto e le automobili non le compriamo perché non abbiamo soldi e perché ci rimarrebbero le mani attaccate al volante, e non è una figura retorica.
Quindi, se mi chiedessero come mi trovo nel mondo di sopra, risponderei “male, non è un mondo civile.”
Per non parlare del fatto che una volta che stai al mondo come zombi, da qualche parte ti devi cercare da mangiare. Ma questo è un altro tipo di problema.
giovedì 7 aprile 2011
Franco Calamari
In un bar che non nominerò, in un quartiere che non citerò va spesso un tale di cui dirò solo il nome, Franco, e il cognome, Calamari; della sua età dirò solo che ha cinquantaquattro anni, e del suo aspetto fisico che è alto un metro e settantadue, normolineo, in sovrappeso, ha la faccia ovale e porta i baffi scuri e un po’ bianchi, perché è bruno brizzolato. Gli occhi sono marroni, oppure neri. Si abbiglia in maniera moderata, nei colori predominanti del beige e celeste d’estate e del grigio e blu d’inverno.
E abita a venti metri dal bar. Di lui non dirò altro per non renderlo riconoscibile. Non voglio parlare della sua vita per non intromettermi nella sua privacy. Racconterò solo delle sue abitudini che poi sono quasi tutta la sua vita.
Franco puzza, gli puzza il fiato e la cotenna. Si lava, ma mangia da schifo e fiata e trasuda l’immondizia che ingurgita. Non mangia calamari, gli sembrerebbe di mangiare dei parenti, la sua dieta è composta prevalentemente da tramezzini, scatolame e merendine. Orfano e celibe, provvede da se alla propria dispensa e forse fa male, ma tutti i gusti son gusti; a lui piace così.
Al bar ci va per comprare il latte e i tramezzini.
Franco Calamari è un eroe, è il socio più attivo dell’associazione che si prende cura degli striminziti giardinetti della strada dove abita che è una via di quel quartiere che non ho citato, ma che è un quartiere in stile moderno, senza piazze, fontane o giardini, ma con un centro commerciale grande così.
Anzi dell’associazione è l’unico socio attivo. Gli altri, dal momento che lui sacrifica gratuitamente se stesso alla causa e il suo sacrificio è sufficiente alla causa, non fanno niente, tranne dargli saggi consigli e preziosi suggerimenti.
Se quei giardinetti fossero abbandonati, il municipio lo ha ribadito più volte, il comune non si accollerebbe l’onere di curarli, né di evitare che ci passi sopra un parcheggio.
Quindi Franco, tutti i giorni alle otto del mattino, apre il piccolo cancello di entrata, dà un occhiata che tutto sia in ordine e che durante la notte non siano intervenuti vandali, sbandati o animali feroci oppure solo incontinenti a seminare disordine e sporcizia dove durante la giornata giocheranno bambini e passeggeranno anziani; quei giardini, piccoli e striminziti, ma ben tenuti, sono assai frequentati dalla gente della zona, perché in quella zona non c’è altro se non palazzi grigi, strade dove sfrecciano rumorosamente auto e scooter e il centro commerciale maestoso come un palazzo imperiale.
Alle otto e dodici o quindici Franco esce dai giardini e si trova sul marciapiede, costeggia il traffico intenso per trecento metri e si mette ad aspettare l’autobus davanti al centro commerciale.
Alle diciotto e trentanove o quarantasei, a volte alle diciannove, Franco torna dal lavoro e prima di rincasare, passa per i giardini, fa un’ispezione generale e si siede per dieci minuti sulla sua panchina preferita. Poi apre una specie di cassapanca addossata al bagno chimico, prende tre sacchetti per la spazzatura e li sostituisce a quelli nei cestini.
Quindi fa la cosa più eroica, si prende cura delle piante. L’associazione ha ottenuto dal comune l’acqua, nel giardinetto c’è una fontanella e Franco alle diciannove e qualche minuto, quando non piove, ci attacca il tubo e innaffia le piante, specialmente quelle coi fiori. Poi controlla il bagno chimico, passa all’interno una spugna imbevuta di disinfettante e innaffia anche li.
Alle diciannove e trenta, o quaranta, d’estate e d’inverno, Franco Calamari chiude con il lucchetto il bagno chimico, chiude con la catena e il lucchetto il cancello dei giardini e rincasa. Prima, però, passa al bar a mangiare tramezzini.
La domenica fa molto di più per quei giardini e pranza al bar coi tramezzini.
La maggior parte della gente che lo conosce pensa che sia il fatto che non ha nient’altro nella vita se non i tramezzini e le merendine a farlo sacrificare tanto per i giardini.
Io invece credo che sia il fatto di capire di essere l’unico di quella zona a sacrificarsi per la bellezza e per un bene comune che lo fanno rimpinzare di schifezze e non desiderare nient’altro. Secondo me, se Franco Calamari puzza, e vi assicuro che puzza anche se si lava ogni giorno, puzza per protesta.
Ed è per questo che vi ho parlato di lui.
E abita a venti metri dal bar. Di lui non dirò altro per non renderlo riconoscibile. Non voglio parlare della sua vita per non intromettermi nella sua privacy. Racconterò solo delle sue abitudini che poi sono quasi tutta la sua vita.
Franco puzza, gli puzza il fiato e la cotenna. Si lava, ma mangia da schifo e fiata e trasuda l’immondizia che ingurgita. Non mangia calamari, gli sembrerebbe di mangiare dei parenti, la sua dieta è composta prevalentemente da tramezzini, scatolame e merendine. Orfano e celibe, provvede da se alla propria dispensa e forse fa male, ma tutti i gusti son gusti; a lui piace così.
Al bar ci va per comprare il latte e i tramezzini.
Franco Calamari è un eroe, è il socio più attivo dell’associazione che si prende cura degli striminziti giardinetti della strada dove abita che è una via di quel quartiere che non ho citato, ma che è un quartiere in stile moderno, senza piazze, fontane o giardini, ma con un centro commerciale grande così.
Anzi dell’associazione è l’unico socio attivo. Gli altri, dal momento che lui sacrifica gratuitamente se stesso alla causa e il suo sacrificio è sufficiente alla causa, non fanno niente, tranne dargli saggi consigli e preziosi suggerimenti.
Se quei giardinetti fossero abbandonati, il municipio lo ha ribadito più volte, il comune non si accollerebbe l’onere di curarli, né di evitare che ci passi sopra un parcheggio.
Quindi Franco, tutti i giorni alle otto del mattino, apre il piccolo cancello di entrata, dà un occhiata che tutto sia in ordine e che durante la notte non siano intervenuti vandali, sbandati o animali feroci oppure solo incontinenti a seminare disordine e sporcizia dove durante la giornata giocheranno bambini e passeggeranno anziani; quei giardini, piccoli e striminziti, ma ben tenuti, sono assai frequentati dalla gente della zona, perché in quella zona non c’è altro se non palazzi grigi, strade dove sfrecciano rumorosamente auto e scooter e il centro commerciale maestoso come un palazzo imperiale.
Alle otto e dodici o quindici Franco esce dai giardini e si trova sul marciapiede, costeggia il traffico intenso per trecento metri e si mette ad aspettare l’autobus davanti al centro commerciale.
Alle diciotto e trentanove o quarantasei, a volte alle diciannove, Franco torna dal lavoro e prima di rincasare, passa per i giardini, fa un’ispezione generale e si siede per dieci minuti sulla sua panchina preferita. Poi apre una specie di cassapanca addossata al bagno chimico, prende tre sacchetti per la spazzatura e li sostituisce a quelli nei cestini.
Quindi fa la cosa più eroica, si prende cura delle piante. L’associazione ha ottenuto dal comune l’acqua, nel giardinetto c’è una fontanella e Franco alle diciannove e qualche minuto, quando non piove, ci attacca il tubo e innaffia le piante, specialmente quelle coi fiori. Poi controlla il bagno chimico, passa all’interno una spugna imbevuta di disinfettante e innaffia anche li.
Alle diciannove e trenta, o quaranta, d’estate e d’inverno, Franco Calamari chiude con il lucchetto il bagno chimico, chiude con la catena e il lucchetto il cancello dei giardini e rincasa. Prima, però, passa al bar a mangiare tramezzini.
La domenica fa molto di più per quei giardini e pranza al bar coi tramezzini.
La maggior parte della gente che lo conosce pensa che sia il fatto che non ha nient’altro nella vita se non i tramezzini e le merendine a farlo sacrificare tanto per i giardini.
Io invece credo che sia il fatto di capire di essere l’unico di quella zona a sacrificarsi per la bellezza e per un bene comune che lo fanno rimpinzare di schifezze e non desiderare nient’altro. Secondo me, se Franco Calamari puzza, e vi assicuro che puzza anche se si lava ogni giorno, puzza per protesta.
Ed è per questo che vi ho parlato di lui.
venerdì 4 marzo 2011
Zombi (una storia vera)
- Sono arrivati i nuovi operai.
- Bene, metteteli subito al lavoro.
- Dovrebbero prima mangiare.
- Fategli mangiare i vecchi operai. Ma che si mettano al lavoro subito dopo.
Gli zombi furono fatti entrare nella sala scocche e li si lasciarono in compagnia dei vecchi operai, ai quali non era stato ancora comunicato il licenziamento.
Glielo fecero capire gli zombi. E appena lo ebbero capito, iniziarono ad essere digeriti.
Gli zombi erano lavoratori molto più lenti e meno efficienti dei vivi, però non costavano quasi nulla, bastava dargli da mangiare dei poveri.
I poveri allora si consultarono e decisero di proporsi al posto degli zombi.
Sarebbero stati più veloci ed efficienti e non sarebbero costati quasi nulla, avrebbero mangiato gli zombi.
Gli zombi non si preoccuparono granché, in fondo non avevano niente da perdere, neanche la vita. I poveri iniziarono a lavorare, portando a casa zombi per cena.
Quando furono esaurite le scorte di zombi, i poveri iniziarono a mangiare i capireparto, e mangiati questi si mangiarono il consiglio di amministrazione. Purtroppo la fabbrica fallì e i poveri mangiarono i suoi resti, poi morirono di fame.
Nessuno sentì la mancanza di tutto ciò.
- Bene, metteteli subito al lavoro.
- Dovrebbero prima mangiare.
- Fategli mangiare i vecchi operai. Ma che si mettano al lavoro subito dopo.
Gli zombi furono fatti entrare nella sala scocche e li si lasciarono in compagnia dei vecchi operai, ai quali non era stato ancora comunicato il licenziamento.
Glielo fecero capire gli zombi. E appena lo ebbero capito, iniziarono ad essere digeriti.
Gli zombi erano lavoratori molto più lenti e meno efficienti dei vivi, però non costavano quasi nulla, bastava dargli da mangiare dei poveri.
I poveri allora si consultarono e decisero di proporsi al posto degli zombi.
Sarebbero stati più veloci ed efficienti e non sarebbero costati quasi nulla, avrebbero mangiato gli zombi.
Gli zombi non si preoccuparono granché, in fondo non avevano niente da perdere, neanche la vita. I poveri iniziarono a lavorare, portando a casa zombi per cena.
Quando furono esaurite le scorte di zombi, i poveri iniziarono a mangiare i capireparto, e mangiati questi si mangiarono il consiglio di amministrazione. Purtroppo la fabbrica fallì e i poveri mangiarono i suoi resti, poi morirono di fame.
Nessuno sentì la mancanza di tutto ciò.
venerdì 19 novembre 2010
Disgusto
C’è quarcosa che nun va, qua intorno.
Me sembra de sentì ‘n saporaccio, ‘na puzza de rancido.
C’è quarcosa che nun va. Sarà la società?
Me pare de vedè li sorci corre sottomuro.
Competono a li mejo sorci, s’abbottano de formaggio.
Forse è quello che puzza.
Me pare de vive in una fogna.
Me sento quarcosa dar profonno,
un senso de schifo.
Viene proprio da lontano, ma sta qua drento.
E’ come se ingoiassi sempre lo stesso rospo,
ma quello ogni vorta torna su.
E’ un profonno senso de disgusto.
Me sa che le cozze cor latte nun le magno più.
Me sembra de sentì ‘n saporaccio, ‘na puzza de rancido.
C’è quarcosa che nun va. Sarà la società?
Me pare de vedè li sorci corre sottomuro.
Competono a li mejo sorci, s’abbottano de formaggio.
Forse è quello che puzza.
Me pare de vive in una fogna.
Me sento quarcosa dar profonno,
un senso de schifo.
Viene proprio da lontano, ma sta qua drento.
E’ come se ingoiassi sempre lo stesso rospo,
ma quello ogni vorta torna su.
E’ un profonno senso de disgusto.
Me sa che le cozze cor latte nun le magno più.
lunedì 18 ottobre 2010
Sogni da proletariato a progetto
Ho sognato di essere un’ape e di posarmi sui fiori più colorati, ho sognato di volare.
Ho sognato di essere apprezzata ed ammirata, di essere temuta e rispettata.
Nel sogno volavo ronzando, mentre vedevo il mondo scorrere sotto di me.
Capitavo in una stazione di servizio per automobili e mi posavo sul bordo di un finestrino mezzo aperto, così che, quando l'auto partiva, mi trovavo già in faccia al vento a gustarmi lo spettacolo della velocità.
Tenevo le ali chiuse per non compromettere l’aerodinamicità della vettura e sentivo il vento forte che mi agitava la peluria del dorso.
Ne godevo tanto da rischiare di perdere l’equilibrio e con le zampette ben salde, come una surfista dei finestrini, me ne restavo appollaiata su quel bordo di vetro e mi piaceva un sacco.
Quando l’auto si fermava volavo via contenta.
Era stupendo essere un’ape, avevo avventure, facevo affari con la storia del polline, con il miele e con la tratta dei fuchi. Avevo una posizione sociale di tutto rispetto.
Ma il sonno finisce e con il sonno finisce il sogno, mi sono svegliata.
Sono tornata blatta, faccio schifo agli altri ed un po’ a me stessa.
I mezzi di produzione del miele, la grande distribuzione del polline e lo sfruttamento dei fuchi continuano ad essere appannaggio delle api che sono organizzate.
Noi blatte siamo disgregate socialmente, prima che moralmente.
Se andassi in una stazione di servizio per automobili potrei mettermi sotto le ruote della prima che parte.
Ho sognato di essere apprezzata ed ammirata, di essere temuta e rispettata.
Nel sogno volavo ronzando, mentre vedevo il mondo scorrere sotto di me.
Capitavo in una stazione di servizio per automobili e mi posavo sul bordo di un finestrino mezzo aperto, così che, quando l'auto partiva, mi trovavo già in faccia al vento a gustarmi lo spettacolo della velocità.
Tenevo le ali chiuse per non compromettere l’aerodinamicità della vettura e sentivo il vento forte che mi agitava la peluria del dorso.
Ne godevo tanto da rischiare di perdere l’equilibrio e con le zampette ben salde, come una surfista dei finestrini, me ne restavo appollaiata su quel bordo di vetro e mi piaceva un sacco.
Quando l’auto si fermava volavo via contenta.
Era stupendo essere un’ape, avevo avventure, facevo affari con la storia del polline, con il miele e con la tratta dei fuchi. Avevo una posizione sociale di tutto rispetto.
Ma il sonno finisce e con il sonno finisce il sogno, mi sono svegliata.
Sono tornata blatta, faccio schifo agli altri ed un po’ a me stessa.
I mezzi di produzione del miele, la grande distribuzione del polline e lo sfruttamento dei fuchi continuano ad essere appannaggio delle api che sono organizzate.
Noi blatte siamo disgregate socialmente, prima che moralmente.
Se andassi in una stazione di servizio per automobili potrei mettermi sotto le ruote della prima che parte.
giovedì 14 ottobre 2010
Studio statistico umanistico sugli impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile millenovecentonovantotto. Intervista n. 4
Legenda: Intervistatore: I – Pazzo: P
Testo dell’intervista
I: Buongiorno signore.
P: Buongiorno a lei, come stà?
I: Io bene. Lei la vedo alquanto blu, si sente bene?
P: Mai stato meglio.
I: Lei è uno dei quindici impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile del millenovecentonovantotto, dati per scomparsi il diciannove aprile del millenovecentonovantotto?
P: Impazziti per traffico mi piace, si, siamo impazziti per traffico a Roma quel giorno.
I: Finalmente uno che lo ammette.
P: Come?
I: Niente, parlavo tra me. Mi dica cosa è successo. Se lo ricorda? E’ sicuro di stare bene? Fisicamente ha l’aria di essere in forma, però mi sembra un po’ blu nell’aspetto.
P: Non si preoccupi, sto benissimo.
I: Tranne che per il fatto che è leggermente pazzo, no?
P: E’ vero, me ne stavo dimenticando. Sono impazzito per traffico a Roma. Quando? Mi rinfreschi la memoria.
I: Il diciotto aprile millenovecentonovantotto.
P: Si, è vero, proprio quel giorno. Bé, guardi, lei mi è simpatico. Finora nessuno di noi ha mai rilasciato interviste al riguardo, ma per lei farò un eccezione e le racconterò come è andata.
I: Bene. Sono tutto orecchi.
P: Eravamo su Via Salaria, fermi sotto il cavalcavia della tangenziale, imbottigliati nel traffico delle sei del pomeriggio.
I: Una cosa abominevole.
P: Ben detto, abominevole. Insomma, eravamo fermi, e ci guardavamo intorno cercando una via d’uscita.
I: Eravate chi?
P: Io e gli altri quattordici, ognuno nella sua auto, ognuno quasi impazzito.
I: E poi?
P: Siamo impazziti.
I: Bene.
P: Si, bene. E’ stato fantastico. Siamo usciti tutti e quindici contemporaneamente dalle auto e ce ne siamo andati, lasciandole li, sotto lo sguardo degli altri automobilisti.
I: E che avete fatto.
P: Siamo venuti qui.
I: Quindi i quindici impazziti per traffico a Roma quel diciotto di aprile, sono impazziti tutti assieme, cari amici.
P: Ma con chi parla?
I: Con nessuno, parlo tra me. Dicevamo, quindi, che state qui, a Villa Ada, da allora?
P: Si chiama in un altro modo, ma si, viviamo qui.
I: Come vivete?
P: Qui c’è tutto quello che ci occorre, i frutti della terra, l’alberocasa, l’albero delle anime.
I: L’albero che?
P: L’albero delle anime.
I: Aaahh!! Cos’era quello?
P: Cosa?
I: Quella cosa che ci ha volato sulla testa.
P: Niente, il mio amico Sturkzin che si allena sulla banshee.
I: Che?
P: Sturkzin che si allena sulla banshee, un ikran.
I: Adesso è più chiaro. Che diavolo era quella cosa che volava?
P: Una banshee, un animale abbastanza comune qui.
I: A Villa Ada?
P: No, su Pandora.
I: E che è?
P: Una delle tre lune del pianeta Polyphemus, la luna su cui ti trovi ora si chiama Pandora.
I: Ma se stiamo davanti al laghetto di Villa Ada.
P: La Grande Madre Eywa ti perdonerà per quello che dici. E, ad ogni modo, anche il laghetto di Villa Ada è parte del tutto che Eywa, la grande Madre, comprende in se.
I: Certo che sei impazzito di brutto tu, quel diciotto di aprile. E su un omone di più di due metri come te la pazzia non è una bella cosa.
P: Sono alto tre metri e quaranta.
I: Aaaahhh! Chi sono quelli? Tutti blu e tutti alti tre metri.
P: Gli altri impazziti, siamo Nav’i adesso. Quel giorno ci siamo convertiti al naturalismo e abbiamo assunto un aspetto nuovo, grazie a Eywa, la …
I: La grande madre, l’ho capito. Ma che siete, avatar?
P: Ah, ah. Voi umani ci chiamate così? Avatar. Ah, ah, ah.
I: Si, è proprio divertente. Che strano il mondo, vero?
P: Non è strano il mondo, sono gli umani ad essere strani.
I: Giusto, gli umani sono strani. Bene, io avrei da fare alcune cosette, poi dovrei trascrivere l’intervista per pubblicarla sul blog. Se non ti dispiace, me ne andrei. Se seguo il sentiero arrivo all’uscita su Via Salaria, giusto?
P: No, di la vai ai monti fluttuanti di Pandora. Via Salaria è di là. Attento che a quest’ora c’è un sacco di traffico.
I: Già, i monti fluttuanti. Bé, grazie tanto dell’intervista, è stata molto interessante.
P: Torna a trovarci quando vuoi.
I: Contaci. Addio.
Incredibile, cari lettori, i quindici impazziti scomparsi stanno a Villa Ada e sono diventati avatar.
Questa storia delle interviste agli impazziti per traffico sta cominciando a diventare pericolosa, ma la qualità scientifica del mio lavoro inizia a dare i suoi frutti.
Testo dell’intervista
I: Buongiorno signore.
P: Buongiorno a lei, come stà?
I: Io bene. Lei la vedo alquanto blu, si sente bene?
P: Mai stato meglio.
I: Lei è uno dei quindici impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile del millenovecentonovantotto, dati per scomparsi il diciannove aprile del millenovecentonovantotto?
P: Impazziti per traffico mi piace, si, siamo impazziti per traffico a Roma quel giorno.
I: Finalmente uno che lo ammette.
P: Come?
I: Niente, parlavo tra me. Mi dica cosa è successo. Se lo ricorda? E’ sicuro di stare bene? Fisicamente ha l’aria di essere in forma, però mi sembra un po’ blu nell’aspetto.
P: Non si preoccupi, sto benissimo.
I: Tranne che per il fatto che è leggermente pazzo, no?
P: E’ vero, me ne stavo dimenticando. Sono impazzito per traffico a Roma. Quando? Mi rinfreschi la memoria.
I: Il diciotto aprile millenovecentonovantotto.
P: Si, è vero, proprio quel giorno. Bé, guardi, lei mi è simpatico. Finora nessuno di noi ha mai rilasciato interviste al riguardo, ma per lei farò un eccezione e le racconterò come è andata.
I: Bene. Sono tutto orecchi.
P: Eravamo su Via Salaria, fermi sotto il cavalcavia della tangenziale, imbottigliati nel traffico delle sei del pomeriggio.
I: Una cosa abominevole.
P: Ben detto, abominevole. Insomma, eravamo fermi, e ci guardavamo intorno cercando una via d’uscita.
I: Eravate chi?
P: Io e gli altri quattordici, ognuno nella sua auto, ognuno quasi impazzito.
I: E poi?
P: Siamo impazziti.
I: Bene.
P: Si, bene. E’ stato fantastico. Siamo usciti tutti e quindici contemporaneamente dalle auto e ce ne siamo andati, lasciandole li, sotto lo sguardo degli altri automobilisti.
I: E che avete fatto.
P: Siamo venuti qui.
I: Quindi i quindici impazziti per traffico a Roma quel diciotto di aprile, sono impazziti tutti assieme, cari amici.
P: Ma con chi parla?
I: Con nessuno, parlo tra me. Dicevamo, quindi, che state qui, a Villa Ada, da allora?
P: Si chiama in un altro modo, ma si, viviamo qui.
I: Come vivete?
P: Qui c’è tutto quello che ci occorre, i frutti della terra, l’alberocasa, l’albero delle anime.
I: L’albero che?
P: L’albero delle anime.
I: Aaahh!! Cos’era quello?
P: Cosa?
I: Quella cosa che ci ha volato sulla testa.
P: Niente, il mio amico Sturkzin che si allena sulla banshee.
I: Che?
P: Sturkzin che si allena sulla banshee, un ikran.
I: Adesso è più chiaro. Che diavolo era quella cosa che volava?
P: Una banshee, un animale abbastanza comune qui.
I: A Villa Ada?
P: No, su Pandora.
I: E che è?
P: Una delle tre lune del pianeta Polyphemus, la luna su cui ti trovi ora si chiama Pandora.
I: Ma se stiamo davanti al laghetto di Villa Ada.
P: La Grande Madre Eywa ti perdonerà per quello che dici. E, ad ogni modo, anche il laghetto di Villa Ada è parte del tutto che Eywa, la grande Madre, comprende in se.
I: Certo che sei impazzito di brutto tu, quel diciotto di aprile. E su un omone di più di due metri come te la pazzia non è una bella cosa.
P: Sono alto tre metri e quaranta.
I: Aaaahhh! Chi sono quelli? Tutti blu e tutti alti tre metri.
P: Gli altri impazziti, siamo Nav’i adesso. Quel giorno ci siamo convertiti al naturalismo e abbiamo assunto un aspetto nuovo, grazie a Eywa, la …
I: La grande madre, l’ho capito. Ma che siete, avatar?
P: Ah, ah. Voi umani ci chiamate così? Avatar. Ah, ah, ah.
I: Si, è proprio divertente. Che strano il mondo, vero?
P: Non è strano il mondo, sono gli umani ad essere strani.
I: Giusto, gli umani sono strani. Bene, io avrei da fare alcune cosette, poi dovrei trascrivere l’intervista per pubblicarla sul blog. Se non ti dispiace, me ne andrei. Se seguo il sentiero arrivo all’uscita su Via Salaria, giusto?
P: No, di la vai ai monti fluttuanti di Pandora. Via Salaria è di là. Attento che a quest’ora c’è un sacco di traffico.
I: Già, i monti fluttuanti. Bé, grazie tanto dell’intervista, è stata molto interessante.
P: Torna a trovarci quando vuoi.
I: Contaci. Addio.
Incredibile, cari lettori, i quindici impazziti scomparsi stanno a Villa Ada e sono diventati avatar.
Questa storia delle interviste agli impazziti per traffico sta cominciando a diventare pericolosa, ma la qualità scientifica del mio lavoro inizia a dare i suoi frutti.
martedì 12 ottobre 2010
Freghismi
Sto per fregarne un altro.
Chi prova a fregarmi?
Chi sarà il prossimo che proverà a fregarmi?
Mi muovo circospetto e mi guardo alle spalle,
cerco qualcuno da fregare.
Chi vuole fregarmi?
Mio fratello? L’ho fregato.
I miei amici? Fregati.
La mia donna? La frego io.
Chi ho fregato quest’oggi?
Chi fregherò domani?
Mi hanno fregato? Ci hanno provato?
Tu vuoi fregarmi? Già ti ho fregato io.
Al mondo chi frega non viene fregato.
Vincere è fregare una volta di più di quante si viene fregati.
Chi sto fregando? Chi fregherò?
E’ dolce il ricordo di quanti ho fregato.
Chi prova a fregarmi?
Chi sarà il prossimo che proverà a fregarmi?
Mi muovo circospetto e mi guardo alle spalle,
cerco qualcuno da fregare.
Chi vuole fregarmi?
Mio fratello? L’ho fregato.
I miei amici? Fregati.
La mia donna? La frego io.
Chi ho fregato quest’oggi?
Chi fregherò domani?
Mi hanno fregato? Ci hanno provato?
Tu vuoi fregarmi? Già ti ho fregato io.
Al mondo chi frega non viene fregato.
Vincere è fregare una volta di più di quante si viene fregati.
Chi sto fregando? Chi fregherò?
E’ dolce il ricordo di quanti ho fregato.
domenica 29 agosto 2010
Studio statistico umanistico sugli impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile millenovecentonovantotto. Intervista n. 3
Legenda: Intervistatore: I – Pazzo: P
Testo dell’intervista
I: Lei è pazzo?
P: No.
I: Quando è impazzito?
P: E lei?
I: E’impazzito guidando nel traffico?
P: Io non ho mai guidato, non ho nemmeno la patente.
I: Può dirci che cosa ha pensato all’inizio, nel momento in cui è impazzito?
P: Ho pensato che per essere diventato pazzo, il traffico doveva essere arrivato a un livello di esaurimento insopportabile. Credo che la pazzia, per il traffico, sia stata una via di fuga.
I: Lei è’ impazzito per fuggire dalla realtà?
P: Non io, il traffico è impazzito per fuggire da se stesso. Sentendosi perduto in un ingorgo ha preferito impazzire.
I: Si rende conto di quello che dice?
P: Si, perfettamente. E lei si rende conto che ha fatto due ore di traffico per arrivare fin qua a fare questa intervista?
I: Può descriverci la sua famiglia?
P: Non ne ho nessuna intenzione.
I: Vuole parlarci della sua infanzia?
P: No.
I: Sa perché lei viene considerato pazzo?
P: Nessuno mi ha mai considerato pazzo.
I: Ha qualche dichiarazione da fare in proposito.
P: No.
I: Non è stata molto utile questa intervista.
P: I soldi pattuiti deve darmeli lo stesso.
I: E’ venale lei?
P: L’intervista è finita. Basta domande, mi deve pagare.
I: Certo che come pazzo lei sembra piuttosto attento alle cose pratiche.
P: Glielo ho detto che non sono pazzo.
Dopo questa esperienza ho deciso che, in cambio delle interviste, non prometterò mai più del denaro agli impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile millenovecentonovantotto. Se me lo chiedessero, il denaro intendo, ebbene li classificherei nel mio computo scientifico come deceduti, tanto non credo che qualcuno si prenderà mai la briga di controllare se è vero.
Testo dell’intervista
I: Lei è pazzo?
P: No.
I: Quando è impazzito?
P: E lei?
I: E’impazzito guidando nel traffico?
P: Io non ho mai guidato, non ho nemmeno la patente.
I: Può dirci che cosa ha pensato all’inizio, nel momento in cui è impazzito?
P: Ho pensato che per essere diventato pazzo, il traffico doveva essere arrivato a un livello di esaurimento insopportabile. Credo che la pazzia, per il traffico, sia stata una via di fuga.
I: Lei è’ impazzito per fuggire dalla realtà?
P: Non io, il traffico è impazzito per fuggire da se stesso. Sentendosi perduto in un ingorgo ha preferito impazzire.
I: Si rende conto di quello che dice?
P: Si, perfettamente. E lei si rende conto che ha fatto due ore di traffico per arrivare fin qua a fare questa intervista?
I: Può descriverci la sua famiglia?
P: Non ne ho nessuna intenzione.
I: Vuole parlarci della sua infanzia?
P: No.
I: Sa perché lei viene considerato pazzo?
P: Nessuno mi ha mai considerato pazzo.
I: Ha qualche dichiarazione da fare in proposito.
P: No.
I: Non è stata molto utile questa intervista.
P: I soldi pattuiti deve darmeli lo stesso.
I: E’ venale lei?
P: L’intervista è finita. Basta domande, mi deve pagare.
I: Certo che come pazzo lei sembra piuttosto attento alle cose pratiche.
P: Glielo ho detto che non sono pazzo.
Dopo questa esperienza ho deciso che, in cambio delle interviste, non prometterò mai più del denaro agli impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile millenovecentonovantotto. Se me lo chiedessero, il denaro intendo, ebbene li classificherei nel mio computo scientifico come deceduti, tanto non credo che qualcuno si prenderà mai la briga di controllare se è vero.
lunedì 23 agosto 2010
Un orto botanico
Quello che rimpiango di Roma non è la città sparita che non ho visto, né il suo popolo che era migliore prima di adesso soltanto perché non aveva niente e poteva permettersi di essere generoso senza nulla perdere. Rimpiango il luogo che avrebbe potuto essere, perché l'ho immaginato tanto che praticamente l'ho visto.
Roma avrebbe potuto essere l'orto botanico archeologico e il parco naturale artistico più sensazionale nel giro di almeno quattro o cinque continenti. I musei archeologici avrebbero potuto inserirsi in musei forestali e agricoli, il centro storico si sarebbe potuto circondare di boschi, vigne e frutteti che allo stesso tempo vi avrebbero attestato avamposti nelle ville patrizie boschive e sul lungotevere boscoso; e la sede della Sovrintendenza si poteva fare in cima ad una sequoia (per i primi secoli, aspettando la crescita dell'albero, l'ufficio sarebbe stato in verità un po' strettino).
Io non rimpiango la città che Roma è stata, rimpiango che a Roma ci sia ancora una città, anziché una riserva naturalistico culturale.
Però, se si demolissero gli edifici posteriori al millenovecento (quasi tutti) e si rimboscasse a tappeto tutta la provincia, la situazione potrebbe migliorare.
Il Tevere potrebbe tornare, non solo balneabile, ma anche potabile, oltre che biondo.
E invece delle squallide bancarelle dell'estate romana si organizzerebbe il festival della poesia tra i ginepri di Corso Vittorio, l'estemporanea di pittura nella pineta di Piazza Venezia, o la sagra delle zucchine gratinate nella serra multimediale degli ortaggi del Circo Massimo. Tarzan si farebbe il bagno all'incrocio tra l'Aniene e il Tevere. La biennale del cinema muto bulgaro restaurato avrebbe il suo fascino ed un sicuro successo nella cornice verde lussureggiante del Parco delle Piante Tropicali di San Giovanni in Laterano. E tante simili amenità che si possono inventare.
Pensiamoci, e dopo averci pensato, trasferiamoci a rovinare un altro posto.
Roma avrebbe potuto essere l'orto botanico archeologico e il parco naturale artistico più sensazionale nel giro di almeno quattro o cinque continenti. I musei archeologici avrebbero potuto inserirsi in musei forestali e agricoli, il centro storico si sarebbe potuto circondare di boschi, vigne e frutteti che allo stesso tempo vi avrebbero attestato avamposti nelle ville patrizie boschive e sul lungotevere boscoso; e la sede della Sovrintendenza si poteva fare in cima ad una sequoia (per i primi secoli, aspettando la crescita dell'albero, l'ufficio sarebbe stato in verità un po' strettino).
Io non rimpiango la città che Roma è stata, rimpiango che a Roma ci sia ancora una città, anziché una riserva naturalistico culturale.
Però, se si demolissero gli edifici posteriori al millenovecento (quasi tutti) e si rimboscasse a tappeto tutta la provincia, la situazione potrebbe migliorare.
Il Tevere potrebbe tornare, non solo balneabile, ma anche potabile, oltre che biondo.
E invece delle squallide bancarelle dell'estate romana si organizzerebbe il festival della poesia tra i ginepri di Corso Vittorio, l'estemporanea di pittura nella pineta di Piazza Venezia, o la sagra delle zucchine gratinate nella serra multimediale degli ortaggi del Circo Massimo. Tarzan si farebbe il bagno all'incrocio tra l'Aniene e il Tevere. La biennale del cinema muto bulgaro restaurato avrebbe il suo fascino ed un sicuro successo nella cornice verde lussureggiante del Parco delle Piante Tropicali di San Giovanni in Laterano. E tante simili amenità che si possono inventare.
Pensiamoci, e dopo averci pensato, trasferiamoci a rovinare un altro posto.
sabato 14 agosto 2010
La solita incomunicabilità della società moderna
Ad un certo punto s’è alzato ed ha detto “Vorrei che ascoltaste quello che ho da dire perché vorrei dire qualcosa per me importante. E vorrei che questa cosa sembrasse importante anche a voi.”
Poi si è guardato attorno ed ha concluso “Volevo dire solo questo.”
Non ha aggiunto altro e si è seduto di nuovo al suo posto.
Molti dei presenti istintivamente sono stati d’accordo con lui.
Poi si è guardato attorno ed ha concluso “Volevo dire solo questo.”
Non ha aggiunto altro e si è seduto di nuovo al suo posto.
Molti dei presenti istintivamente sono stati d’accordo con lui.
sabato 7 agosto 2010
Studio statistico umanistico sugli impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile millenovecentonovantotto - Intervista n. 2
Legenda: Intervistatore: I – Pazzo: P
Testo dell’intervista
I: Lei era nel traffico il diciotto aprile del millenovecentonovantotto?
P: Si.
I: Dove, esattamente?
P: Sul Lungotevere della Farnesina.
I: A Trastevere.
P: Si, ero in prima fila davanti al semaforo rosso e attendevo il verde.
I: Il semaforo di Piazza Trilussa?
P: Precisamente.
I: E cosa è successo.
P: Si è fermato il tempo.
I: In che senso?
P: Non scatta più il verde.
I: In effetti, lo dico per i lettori che leggeranno la trascrizione dell’intervista, ci troviamo su Lungotevere della Farnesina ed il semaforo di Piazza Trilussa è rosso.
P: E’ guasto secondo lei?
I: Non saprei. Vuole farci credere che lei si trova qui dal diciotto aprile del millenovecentonovantotto?
P: Minuto più, minuto meno.
I: Lei è pazzo.
P: Senta, le multe selvagge mi hanno messo sul lastrico, io col rosso non ci passo. Sarò pazzo, ma un’altra multa non la voglio prendere.
I: Ecco, è scattato il verde. Perché resta fermo?
P: Non è verde, è ancora rosso.
I: Ma non vede che stanno passando tutti? E gli automobilisti dietro stanno fondendo le coronarie con i clacson per quanto sono infuriati con lei che resta fermo.
P: Le dico che è rosso.
I: Lei sta qui da dodici anni? Lei è pazzo davvero. Si è perfino formata della vegetazione intorno alla sua auto.
P: E’ un piccolo giardino che curo personalmente.
I: Come sopravvive?
P: Mia moglie mi porta delle provviste una volta a settimana.
I: Non posso crederci. Intanto è tornato ad essere rosso il semaforo.
P: Glielo avevo detto che è rosso.
I: Ma è intermittente, poi tornerà il verde.
P: Può darsi che lei abbia ragione, ma poi tornerebbe a essere rosso. E se superassi l’incrocio quando venisse questo colore verde, come dice lei, colore che da quando sono qui non ho mai visto, poi ne incontrerei un altro rosso dopo cento metri. Tanto vale starmene qua, che è un bel posto, con il mio giardinetto di piantine dalle foglie sempre rosse. Sono molto autunnali non trova? Le foglie rosse intendo.
I: Le foglie rosse? Senta, mi tolga una curiosità – faccio presente ai lettori che al momento dell’intervista indossavo una polo verde – mi dica, questa mia polo, di che colore è?
P: Rossa.
Errata Corrige Legenda. Intervistatore: I – Daltonico: D.
I: Lei è daltonico, ecco perché da dodici anni vede un semaforo sempre rosso. Il semaforo diventa verde come tutti gli altri, ma lei quel diciotto aprile del millenovecentonovantotto è diventato daltonico, non pazzo.
D: Non mi dica. Quindi ho perso tutto questo tempo. E dire che avevo un sacco di cose da fare. Allora corro ad occuparmi degli affari miei. Vede che gioiello di macchina, è ripartita come se fosse rimasta ferma dodici giorni anziché dodici anni.
I: Aspetti.
D: Arrivederci.
I: E’ partito, ma il semaforo è ancora rosso. Si è salvato perché non passava nessuno. Continuo a vederlo mentre si avvicina al semaforo successivo e passa nuovamente col rosso credendo ormai che tutto ciò che vede rosso sia verde. Risparmio ai lettori la descrizione della scena dell’impatto della sua auto con il tram proveniente da Piazza Sonnino.
Da approfondimenti successivi a questa intervista sono giunto alla conclusione che il daltonismo del diciotto aprile millenovecentonovantotto nel soggetto oggetto del presente studio è stato indotto dalla pazzia. Ovvero il soggetto è diventato daltonico perché impazzito. Altrimenti non lo si potrebbe annoverare tra i cinquantadue pazzi da traffico di quel giorno ed io che ne ho intervistati finora solo due, me ne dovrei mettere a cercare un altro che non è mai stato individuato.
Se il tizio daltonico venisse dichiarato uscito di senno a causa del daltonismo che gli aveva fatto percepire un semaforo come rosso per dodici anni e non daltonico perché pazzo, come potrei trovare il vero cinquantaduesimo pazzo?
Se avete capito la domanda spero che possiate darmi dei suggerimenti.
Testo dell’intervista
I: Lei era nel traffico il diciotto aprile del millenovecentonovantotto?
P: Si.
I: Dove, esattamente?
P: Sul Lungotevere della Farnesina.
I: A Trastevere.
P: Si, ero in prima fila davanti al semaforo rosso e attendevo il verde.
I: Il semaforo di Piazza Trilussa?
P: Precisamente.
I: E cosa è successo.
P: Si è fermato il tempo.
I: In che senso?
P: Non scatta più il verde.
I: In effetti, lo dico per i lettori che leggeranno la trascrizione dell’intervista, ci troviamo su Lungotevere della Farnesina ed il semaforo di Piazza Trilussa è rosso.
P: E’ guasto secondo lei?
I: Non saprei. Vuole farci credere che lei si trova qui dal diciotto aprile del millenovecentonovantotto?
P: Minuto più, minuto meno.
I: Lei è pazzo.
P: Senta, le multe selvagge mi hanno messo sul lastrico, io col rosso non ci passo. Sarò pazzo, ma un’altra multa non la voglio prendere.
I: Ecco, è scattato il verde. Perché resta fermo?
P: Non è verde, è ancora rosso.
I: Ma non vede che stanno passando tutti? E gli automobilisti dietro stanno fondendo le coronarie con i clacson per quanto sono infuriati con lei che resta fermo.
P: Le dico che è rosso.
I: Lei sta qui da dodici anni? Lei è pazzo davvero. Si è perfino formata della vegetazione intorno alla sua auto.
P: E’ un piccolo giardino che curo personalmente.
I: Come sopravvive?
P: Mia moglie mi porta delle provviste una volta a settimana.
I: Non posso crederci. Intanto è tornato ad essere rosso il semaforo.
P: Glielo avevo detto che è rosso.
I: Ma è intermittente, poi tornerà il verde.
P: Può darsi che lei abbia ragione, ma poi tornerebbe a essere rosso. E se superassi l’incrocio quando venisse questo colore verde, come dice lei, colore che da quando sono qui non ho mai visto, poi ne incontrerei un altro rosso dopo cento metri. Tanto vale starmene qua, che è un bel posto, con il mio giardinetto di piantine dalle foglie sempre rosse. Sono molto autunnali non trova? Le foglie rosse intendo.
I: Le foglie rosse? Senta, mi tolga una curiosità – faccio presente ai lettori che al momento dell’intervista indossavo una polo verde – mi dica, questa mia polo, di che colore è?
P: Rossa.
Errata Corrige Legenda. Intervistatore: I – Daltonico: D.
I: Lei è daltonico, ecco perché da dodici anni vede un semaforo sempre rosso. Il semaforo diventa verde come tutti gli altri, ma lei quel diciotto aprile del millenovecentonovantotto è diventato daltonico, non pazzo.
D: Non mi dica. Quindi ho perso tutto questo tempo. E dire che avevo un sacco di cose da fare. Allora corro ad occuparmi degli affari miei. Vede che gioiello di macchina, è ripartita come se fosse rimasta ferma dodici giorni anziché dodici anni.
I: Aspetti.
D: Arrivederci.
I: E’ partito, ma il semaforo è ancora rosso. Si è salvato perché non passava nessuno. Continuo a vederlo mentre si avvicina al semaforo successivo e passa nuovamente col rosso credendo ormai che tutto ciò che vede rosso sia verde. Risparmio ai lettori la descrizione della scena dell’impatto della sua auto con il tram proveniente da Piazza Sonnino.
Da approfondimenti successivi a questa intervista sono giunto alla conclusione che il daltonismo del diciotto aprile millenovecentonovantotto nel soggetto oggetto del presente studio è stato indotto dalla pazzia. Ovvero il soggetto è diventato daltonico perché impazzito. Altrimenti non lo si potrebbe annoverare tra i cinquantadue pazzi da traffico di quel giorno ed io che ne ho intervistati finora solo due, me ne dovrei mettere a cercare un altro che non è mai stato individuato.
Se il tizio daltonico venisse dichiarato uscito di senno a causa del daltonismo che gli aveva fatto percepire un semaforo come rosso per dodici anni e non daltonico perché pazzo, come potrei trovare il vero cinquantaduesimo pazzo?
Se avete capito la domanda spero che possiate darmi dei suggerimenti.
mercoledì 4 agosto 2010
Studio statistico umanistico sugli impazziti per traffico a Roma il diciotto aprile millenovecentonovantotto - Intervista n. 1
Legenda: Intervistatore: I – Pazzo: P
Testo dell’intervista
I: Buongiorno, lei è impazzito a causa del traffico il diciotto aprile millenovecentonovantotto?
P: Del traffico? Buona questa. Forse si, il traffico è una tale follia.
I: Ricorda come sono andate le cose?
P: Quali cose?
Faccio notare, a lato, ai lettori che l’intervistato, in sella ad un velocipede privo di motore, si tiene sul vago riguardo la sua follia. Tipico: lui tenta di nasconderla agli altri e soprattutto a se stesso, ma essa, la follia, lo incalza inesorabile.
I: Ricorda quel terribile giorno di dodici anni fa?
P: No che non ricordo un giorno a caso di dodici anni fa. Ma chi è lei?
I: Il dottore.
Ho detto questo per incutere timore e rispetto: nei pazzi funziona.
P: Forse è lei che ha bisogno di un dottore. Cosa vuole?
I: Va spesso in bicicletta?
P: Continuamente. E’ il mio solo mezzo di trasporto, oltre al treno.
I: Da quanto tempo?
P: Da molti anni.
I: Dal diciotto aprile millenovecentonovantotto.
P: Dagli. Magari è così. Dal diciotto eccetera, se le fa piacere.
I: Diciotto aprile millenovecentonovantotto.
P: Bravo.
I: Si muove in città in bicicletta da allora?
P: Sempre.
I: Lei è pazzo.
P: Le sembro pazzo perché vado in bici? Mi fa schifo il traffico e mi fa schifo l’idea di inquinare. Attraverso tutta Roma in bicicletta.
I: Non si alteri. Siamo tutti certi che lei abbia ragione.
I pazzi vanno assecondati.
P: Tutti chi?
I: Non si preoccupi, va tutto bene.
P: Senta, immagino che sia un brutto periodo per lei, se vuole parliamone, ma forse è il caso che torni a casa e si faccia una bella dormita.
I: Lei crede? Non si sente bene?
P: Io si. Forse lei, però, è meglio che si riposi.
Decido di continuare ad assecondarlo.
I: Lei, intanto, continuerà ad andare in bicicletta?
P: Si. Vuole fare un giro?
I: Grazie, no, non salgo su una bici da molti anni.
P: Sbaglia, lo sa? Pedalare cambia il valore del movimento.
Cosa diamine dice il pazzo, mi domando, e lo assecondo ancora.
I: Certo, naturalmente.
Comincio a temere per la mia incolumità, il pazzo sembra furioso.
P: Si sente bene?
I: Certo. Sto benissimo.
P: Vada a casa e si riposi.
I: Va bene.
P: E si compri una bicicletta.
I: Come no, naturalmente.
P: Così non sarà più tanto stressato per il traffico.
Guadagno l'uscita e mi metto in salvo.
Ebbene, con questa intervista ho dato testimonianza del primo dei ventisette casi di impazziti per traffico quel diciotto di aprile millenovecentonovantotto.
Mi sembra evidente che se uno gira a Roma in bicicletta da molti anni e continua a farlo è certamente pazzo, oltre che fortunato a non essere finito sotto un autobus.
Ad ogni modo il pazzo è stato inserito nella statistica scientifica del mio studio.
Testo dell’intervista
I: Buongiorno, lei è impazzito a causa del traffico il diciotto aprile millenovecentonovantotto?
P: Del traffico? Buona questa. Forse si, il traffico è una tale follia.
I: Ricorda come sono andate le cose?
P: Quali cose?
Faccio notare, a lato, ai lettori che l’intervistato, in sella ad un velocipede privo di motore, si tiene sul vago riguardo la sua follia. Tipico: lui tenta di nasconderla agli altri e soprattutto a se stesso, ma essa, la follia, lo incalza inesorabile.
I: Ricorda quel terribile giorno di dodici anni fa?
P: No che non ricordo un giorno a caso di dodici anni fa. Ma chi è lei?
I: Il dottore.
Ho detto questo per incutere timore e rispetto: nei pazzi funziona.
P: Forse è lei che ha bisogno di un dottore. Cosa vuole?
I: Va spesso in bicicletta?
P: Continuamente. E’ il mio solo mezzo di trasporto, oltre al treno.
I: Da quanto tempo?
P: Da molti anni.
I: Dal diciotto aprile millenovecentonovantotto.
P: Dagli. Magari è così. Dal diciotto eccetera, se le fa piacere.
I: Diciotto aprile millenovecentonovantotto.
P: Bravo.
I: Si muove in città in bicicletta da allora?
P: Sempre.
I: Lei è pazzo.
P: Le sembro pazzo perché vado in bici? Mi fa schifo il traffico e mi fa schifo l’idea di inquinare. Attraverso tutta Roma in bicicletta.
I: Non si alteri. Siamo tutti certi che lei abbia ragione.
I pazzi vanno assecondati.
P: Tutti chi?
I: Non si preoccupi, va tutto bene.
P: Senta, immagino che sia un brutto periodo per lei, se vuole parliamone, ma forse è il caso che torni a casa e si faccia una bella dormita.
I: Lei crede? Non si sente bene?
P: Io si. Forse lei, però, è meglio che si riposi.
Decido di continuare ad assecondarlo.
I: Lei, intanto, continuerà ad andare in bicicletta?
P: Si. Vuole fare un giro?
I: Grazie, no, non salgo su una bici da molti anni.
P: Sbaglia, lo sa? Pedalare cambia il valore del movimento.
Cosa diamine dice il pazzo, mi domando, e lo assecondo ancora.
I: Certo, naturalmente.
Comincio a temere per la mia incolumità, il pazzo sembra furioso.
P: Si sente bene?
I: Certo. Sto benissimo.
P: Vada a casa e si riposi.
I: Va bene.
P: E si compri una bicicletta.
I: Come no, naturalmente.
P: Così non sarà più tanto stressato per il traffico.
Guadagno l'uscita e mi metto in salvo.
Ebbene, con questa intervista ho dato testimonianza del primo dei ventisette casi di impazziti per traffico quel diciotto di aprile millenovecentonovantotto.
Mi sembra evidente che se uno gira a Roma in bicicletta da molti anni e continua a farlo è certamente pazzo, oltre che fortunato a non essere finito sotto un autobus.
Ad ogni modo il pazzo è stato inserito nella statistica scientifica del mio studio.
giovedì 29 luglio 2010
Il barbiere sui tetti
Il personaggio più romantico di Roma abita i tetti della città.
Di giorno fa il barbiere e di notte si sistema su un tetto, quasi ogni notte diverso.
Di giorno e di notte guarda tutti dall’alto, sia se taglia capelli sia se osserva la città affacciato alle terrazze condominiali.
Come barbiere guadagna novecento euro al mese, quanto l’affitto di un appartamento, non vale la pena pagare l’affitto, tanto più che deve già provvedere a sua figlia che vive con la madre.
Al giorno d’oggi la libertà sessuale è un lusso per ricchi.
Se pagasse un affitto, anche basso, non potrebbe pensare a sua figlia. Preferisce abitare i tetti.
Ha sempre con se il portaritratti elettronico, su cui fa scorrere le foto, e poi ha tutte le mail e le lettere di sua figlia, a cominciare da un foglio di figure astratte su cui una mano incerta ha scritto per la prima volta papà. Quelle cose, prima di coricarsi, lo riscaldano o lo rinfrescano, secondo la stagione, sotto le stelle o le nuvole o al riparo di un lavatoio di quelli che stanno in cima ai palazzi.
Si direbbe un personaggio di un altro secolo, perdutamente innamorato e pronto ad ogni sacrificio per il solo compenso di un sorriso della sua bella, ed infatti è così. Il secolo a cui appartiene non è quello in cui crede di vivere.
I tempi sono cambiati velocemente, c’è una crisi. Il nuovo secolo si è trasformato alla nascita. Siamo nel secondo decennio del duemila, ma siamo anche nell’ottocento. Il romanticismo del barbiere sui tetti è più che attuale. E’ il resto del secolo ad essere anacronistico, continuando a rincorrere l’illusione del lusso gretto, del tecnicismo superfluo e della competizione ottusa che l’hanno rovinato.
Adesso è così che si vive, di passione e adattamento, alla ricerca di significati e di un senso profondo. Lo hanno capito solo i pochi che sanno distaccarsi, ed il barbiere che vive sui tetti.
Tagliare i capelli è ciò che fa da vent’anni. Sua figlia ne ha tredici.
Tagliare i capelli è un arte, non un arte sublime, ma un arte minore, da artigiano. Le mani sapienti muovono il pettine, le forbici, le ciocche e zac. La testa prende forma, il volto si illumina. Un barbiere somiglia ad uno scultore o ad un giardiniere.
Il portaritratti elettronico sta tutto il giorno sotto gli occhi degli avventori che chiedono notizie della bambina.
Cresce, fa la terza media, fa atletica leggera, ha un fidanzatino, vuol fare l’attrice, no vuol fare l’architetto, il medico. Prenderà la strada che vuole. Importante che studi.
La città vista dai tetti ha un aspetto meno squallido di quando gli cammini a fianco e ti mostra le sue pustole d’affarismo. Il mondo visto con gli occhi dell’innamorato ha un aspetto più vivido e colorato. La natura torna al centro della coscienza quando si guarda tutto dall’alto e si è innamorati.
Il barbiere sui tetti è il personaggio più romantico e naturalista della città.
La sera, tornando a casa, potreste avere l’impressione che qualcuno vi stia osservando dall’alto e guardando le finestre o i balconi può darsi che non vedreste nessuno affacciato. Guardate più su, magari vi osservano da un tetto.
Di giorno fa il barbiere e di notte si sistema su un tetto, quasi ogni notte diverso.
Di giorno e di notte guarda tutti dall’alto, sia se taglia capelli sia se osserva la città affacciato alle terrazze condominiali.
Come barbiere guadagna novecento euro al mese, quanto l’affitto di un appartamento, non vale la pena pagare l’affitto, tanto più che deve già provvedere a sua figlia che vive con la madre.
Al giorno d’oggi la libertà sessuale è un lusso per ricchi.
Se pagasse un affitto, anche basso, non potrebbe pensare a sua figlia. Preferisce abitare i tetti.
Ha sempre con se il portaritratti elettronico, su cui fa scorrere le foto, e poi ha tutte le mail e le lettere di sua figlia, a cominciare da un foglio di figure astratte su cui una mano incerta ha scritto per la prima volta papà. Quelle cose, prima di coricarsi, lo riscaldano o lo rinfrescano, secondo la stagione, sotto le stelle o le nuvole o al riparo di un lavatoio di quelli che stanno in cima ai palazzi.
Si direbbe un personaggio di un altro secolo, perdutamente innamorato e pronto ad ogni sacrificio per il solo compenso di un sorriso della sua bella, ed infatti è così. Il secolo a cui appartiene non è quello in cui crede di vivere.
I tempi sono cambiati velocemente, c’è una crisi. Il nuovo secolo si è trasformato alla nascita. Siamo nel secondo decennio del duemila, ma siamo anche nell’ottocento. Il romanticismo del barbiere sui tetti è più che attuale. E’ il resto del secolo ad essere anacronistico, continuando a rincorrere l’illusione del lusso gretto, del tecnicismo superfluo e della competizione ottusa che l’hanno rovinato.
Adesso è così che si vive, di passione e adattamento, alla ricerca di significati e di un senso profondo. Lo hanno capito solo i pochi che sanno distaccarsi, ed il barbiere che vive sui tetti.
Tagliare i capelli è ciò che fa da vent’anni. Sua figlia ne ha tredici.
Tagliare i capelli è un arte, non un arte sublime, ma un arte minore, da artigiano. Le mani sapienti muovono il pettine, le forbici, le ciocche e zac. La testa prende forma, il volto si illumina. Un barbiere somiglia ad uno scultore o ad un giardiniere.
Il portaritratti elettronico sta tutto il giorno sotto gli occhi degli avventori che chiedono notizie della bambina.
Cresce, fa la terza media, fa atletica leggera, ha un fidanzatino, vuol fare l’attrice, no vuol fare l’architetto, il medico. Prenderà la strada che vuole. Importante che studi.
La città vista dai tetti ha un aspetto meno squallido di quando gli cammini a fianco e ti mostra le sue pustole d’affarismo. Il mondo visto con gli occhi dell’innamorato ha un aspetto più vivido e colorato. La natura torna al centro della coscienza quando si guarda tutto dall’alto e si è innamorati.
Il barbiere sui tetti è il personaggio più romantico e naturalista della città.
La sera, tornando a casa, potreste avere l’impressione che qualcuno vi stia osservando dall’alto e guardando le finestre o i balconi può darsi che non vedreste nessuno affacciato. Guardate più su, magari vi osservano da un tetto.
mercoledì 28 luglio 2010
Categoria studi statistico umanistici - Senza titolo
A Roma c’è il traffico e credo che questa affermazione sia inconfutabile.
Quello che è meno noto, se non a chi, come me, studia da vicino i fenomeni – il termine si capirà che è appropriato quando spiegherò di cosa sto parlando – quello che è meno noto, dicevo, è che a Roma perdono il senno cinquantadue persone al giorno a causa dell’esposizione al traffico. Ogni giorno, non uno di più non uno di meno, cinquantadue persone impazziscono per colpa del traffico.
Bene, come ho detto, sono uno studioso di questi fenomeni e per non smentire ciò ho intrapreso uno studio statistico ed insieme umanistico su di loro, intervistandoli.
Consapevole della quasi impossibilità di intervistarli tutti - considerando che a Roma il traffico c’è da parecchi anni il numero complessivo di questi pazzi è piuttosto alto – ho deciso di intervistare solo quelli impazziti il diciotto aprile del millenovecentonovantotto. Erano cinquantadue, ma dieci sono venuti a mancare, quindi sono rimasti quarantadue. Quindici hanno fatto perdere le loro tracce e si sono dati probabilmente alla macchia ed alla vita nei boschi. Restano ventisette fenomeni oggetti di studio. Un bel numero, ad ogni buon conto. Vedremo cosa ne verrà fuori.
Porterò con me un registratore e poi adatterò un pochino il testo dell’intervista cercando di lasciare inalterato il suo clima ed il significato delle cose dette, trascrivendo il più fedelmente possibile e giustificando le variazioni dal vero dialogo avuto con loro, poveri pazzi.
Prossimamente pubblicherò le prime interviste.
Quello che è meno noto, se non a chi, come me, studia da vicino i fenomeni – il termine si capirà che è appropriato quando spiegherò di cosa sto parlando – quello che è meno noto, dicevo, è che a Roma perdono il senno cinquantadue persone al giorno a causa dell’esposizione al traffico. Ogni giorno, non uno di più non uno di meno, cinquantadue persone impazziscono per colpa del traffico.
Bene, come ho detto, sono uno studioso di questi fenomeni e per non smentire ciò ho intrapreso uno studio statistico ed insieme umanistico su di loro, intervistandoli.
Consapevole della quasi impossibilità di intervistarli tutti - considerando che a Roma il traffico c’è da parecchi anni il numero complessivo di questi pazzi è piuttosto alto – ho deciso di intervistare solo quelli impazziti il diciotto aprile del millenovecentonovantotto. Erano cinquantadue, ma dieci sono venuti a mancare, quindi sono rimasti quarantadue. Quindici hanno fatto perdere le loro tracce e si sono dati probabilmente alla macchia ed alla vita nei boschi. Restano ventisette fenomeni oggetti di studio. Un bel numero, ad ogni buon conto. Vedremo cosa ne verrà fuori.
Porterò con me un registratore e poi adatterò un pochino il testo dell’intervista cercando di lasciare inalterato il suo clima ed il significato delle cose dette, trascrivendo il più fedelmente possibile e giustificando le variazioni dal vero dialogo avuto con loro, poveri pazzi.
Prossimamente pubblicherò le prime interviste.
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